XVIII.

La «Nuova scienza» e la storiografia nel Seicento

1. Linee di svolgimento della letteratura secentesca

L’immagine corrente del Seicento, immagine formatasi già nel Settecento (che vide una reazione vivacissima contro il secolo del “cattivo gusto”, segnato da una sorta di ritorno alla barbarie) e consolidatasi definitivamente nell’Ottocento storicista e risorgimentale, è stata quella del secolo della decadenza italiana nella letteratura, nell’arte, nella vita politica e nella vita morale. In una ricerca un po’ vana delle cause si individuò quindi nell’egemonia spagnola e nell’oppressione controriformistica le responsabili determinanti di tale decadenza. Con questa prospettiva si tese pertanto ad appiattire la sostanza e lo svolgimento del secolo, a ridurne le interne diversità, le tensioni vissute in varie direzioni. Naturalmente accadde però che, dovendosi calcolare delle eccezioni a questo clima generale, eccezioni costituite da alcune potenti personalità che si espressero proprio in quel secolo, sia pure attraverso una dura e continuata battaglia contro le grevi istituzioni e il cupo spirito generale del secolo, e anche dal fervido impegno culturale di alcuni gruppi di intellettuali e di letterati, si finí con l’ascrivere tutto ciò che nel Seicento non era rigorosamente “secentistico” ad una conservazione di elementi ideali, morali, religiosi e politici del gran secolo precedente, ai residui insomma della cultura e della civiltà rinascimentali. In tutto questo sono mescolate, come si può facilmente immaginare, molte verità e molte falsità. Da una parte, se delle cause di questa decadenza che contraddistingue il Seicento si devono cercare, esse non si troveranno tanto in questo secolo quanto nel precedente: si ricordi solo che l’egemonia della Spagna sull’Italia inizia nel 1559, sanzionata dalla pace di Cateau Cambrésis con la Francia, e che il Concilio di Trento si chiude definitivamente, dopo aver elaborato la nuova dottrina della Chiesa e la sua nuova politica, nel 1563. Ma solo una concezione della storia attardata su posizioni deterministiche può, convinta, procedere a questa ricerca delle cause. Sarà invece meglio osservare che Spagna e Controriforma sono le condizioni, attivissime, spesso tragiche e spessissimo fallimentari, della cultura, della letteratura e dell’intera civiltà secentesca: ma sono condizioni che, almeno per reazione, contribuiscono a svegliare ingegni, sollecitano opposizioni e svolgimenti, e talvolta favoriscono (soprattutto da parte della Chiesa) iniziative, commissionando opere, informando attività letterarie e artistiche varie, come accade specialmente nel campo figurativo e architettonico, quando l’Italia pare percorsa da una ventata di rinnovamento o meglio di rifacimento e non solo vengono eseguite grandi opere, ma si rifanno antiche chiese e monumenti d’ogni genere. Occorrerà ora riconoscere immediatamente che, dinanzi a quelle condizioni essenziali e tendenzialmente unificanti l’intero panorama secentesco, le reazioni dei letterati, degli scienziati e in genere degli uomini di cultura sono assai diverse, e non solo per sfumature, che sono tuttavia singolarmente varie. Ad una prima, generale delineazione parrà che due diversi fronti culturali siano costituiti, da una parte, dagli scienziati, che mandano avanti una loro autentica ricerca della verità, muovendo dalle premesse dell’elaborazione filosofica e scientifica rinascimentale-cinquecentesca, dall’altra, dai letterati, moralmente meno capaci di resistenza alle pressioni e alle seduzioni del tempo, culturalmente piú incerti dinanzi ad una scelta di ciò che della civiltà rinascimentale andava e poteva essere svolto, pronti, anzi, spesso ad indirizzare le loro scelte in modo piú esteriore, alla ricerca di un successo che ne compromette fortemente le ragioni. Ma, ad un esame solo un poco piú minuto e piú paziente, si potrà constatare che questi due fronti sono assai meno solidamente costituiti di quanto non si supponga e che le due linee cosí individuate nello svolgimento del Seicento hanno un percorso piú sinuoso e spezzato, costellato anche di incontri e di scontri assai vivaci e fruttificanti.

Tuttavia, due linee esistono veramente nella cultura e nella letteratura secentesche e sono rappresentate da coloro che vestono la letteratura delle sgargianti vesti del gusto barocco e propagandano una cultura adatta allo sfarzo delle corti principesche del Seicento e da coloro che alla tendenza compromissoria e decadente del secolo oppongono la forza di una loro resistenza morale e intellettuale, che corrisponde ad uno spirito attivo intellettualmente e spesso anche religiosamente, ad un gusto di vita, e quindi anche letterario e artistico, sobrio e perfino severo. Sono questi coloro che ansiosamente cercano di determinare il terreno adatto alla fondazione di una “nuova scienza”, per adoperare la terminologia storica introdotta da Francesco De Sanctis, che bene sentí come, al di là della decadenza politica, religiosa e morale, dell’involuzione del gusto e di ogni manifestazione artistica, vivesse nel secolo una corrente che si spingeva audacemente alla scoperta di nuove verità. Si potrà oggi dire che tale corrente investiva di sé, almeno in parte, anche le figure del tempo piú compromesse nell’altra direzione e che nella stessa letteratura barocca, o marinistica, non tutto era ozioso, non solo nelle premesse teoriche o di poetica, ma anche negli esiti poetici. Da una parte, dunque, non si potrà ricondurre semplicemente ad un residuo della civiltà rinascimentale la direzione della cultura del secolo che vede fiorire dentro di sé l’audace rivolta di Campanella, le rivoluzionarie proposte di Galilei, la fervida tensione morale del Sarpi: tutti costoro non solo portano a maturazione, ma svolgono in direzioni assolutamente nuove elementi magari non ignoti alla cultura rinascimentale, ora pervenuti però a ben diversa chiarezza intellettuale, morale e storica, e forniti di una strumentazione ben piú complessa. Dall’altra, non si potrà coinvolgere in una generale condanna tutto ciò che la letteratura secentesca ha prodotto: non solo in quanto in essa sono facilmente distinguibili almeno due ulteriori linee di impegni e di interessi, quella barocca, o marinistica come vien detta in Italia dal nome di colui che diverrà prestissimo il vero maestro di questo tipo di letteratura, e quella classicistica, che però non è essa stessa riconducibile al classicismo cinquecentesco in quanto, come si vedrà, diversi sono gli esempi e i modelli cui si richiama e diverse sono le ambizioni costruttive ed espressive che si perseguono, ma anche perché la letteratura barocca, nella sua stessa varietà di ispirazione, di tensioni rinnovative, di ricerche letterarie e concettuali, contribuiva ad imbarbarire sí una letteratura che aveva raggiunto e consapevolmente affermato una misura e un’armonia singolari ed eccezionali, ma anche a proporre una necessità di nuovo, una diversa concezione della poesia e dei letterati, un nuovo rapporto tra scrittore e pubblico, tra letteratura e politica, tra arte e scienza.

Sicché neppure è facile, come si accennava, circostanziare i luoghi attraverso i quali le varie linee che si trovano nel Seicento passano: non si devono cioè schematizzare quelle linee, ma si deve puntare sull’individuazione delle varie componenti che in ciascuna personalità e magari in certi gruppi di intellettuali fermentano e quindi si manifestano spesso con esuberanza.

È vero pertanto che il Seicento fu in generale il secolo della decadenza della preminenza culturale italiana in Europa: ma i fattori che contribuiscono a ciò sono assai complessi e non ultima va considerata quella sorta di esaurimento che par conseguire in Italia per quello che essa aveva dato e dava ancora alla nascita di una nuova cultura europea, che recava dentro di sé elementi della storia culturale italiana dal Cinquecento al Seicento stesso.

Il Seicento, dunque, in Italia come in Europa, non fu solo il secolo del Barocco, ma anche il secolo della “nuova scienza”. La parola “barocco” (che pare risalire ad un termine in uso nella logica scolastica per designare certi sillogismi e che già nel Cinquecento si trova adoperata come termine spregiativo verso la vecchia mentalità aristotelica e pedantesca per indicare un ragionamento strambo e contorto) appare solitamente carica di un significato negativo, che difficilmente e solo sforzando le cose si può attribuire a tutto il secolo. Anzi si dovrà, oggi, riconoscere che certe spinte autentiche al rinnovamento si manifestano all’interno di quello che vien designato come “barocco”. Andrà del resto considerato che contemporaneo o quasi al barocco, o marinismo, italiano è lo sviluppo del barocco europeo, che in Francia prende il nome di preziosismo e che ha uno dei suoi maggiori rappresentanti in Jean Chapelain, alto ammiratore del Marino e prefatore della prima edizione parigina dell’Adone; in Inghilterra si denomina eufuismo dal titolo di un romanzo di John Lyly, Euphues, e offre risultati complessi di poesia metafisica ed ingegnosa in John Donne e Richard Crashaw, per esempio; in Ispagna si chiama culteranismo o gongorismo, dal raffinato e prezioso poeta Luis de Góngora, o anche concettismo, dal poeta e teorico Baltasar Grácian.

In questa prospettiva si capirà bene come il maggiore rappresentante del barocco italiano abbia avuto presto grande fortuna europea. Ma, a correggere l’idea che col barocco l’Italia dia come suo ultimo regalo all’Europa una gran fabbrica del vuoto e basta, occorrerà ricordare che non fu solo il Marino ad avere larga fortuna europea (in Francia specialmente), ma anche il Campanella, come filosofo oltre che come politico e uomo di religione, il Galilei, che si inserisce con altissima autorità tra Copernico e Keplero e Newton, tanto che a lui, alle sue scoperte e conquiste scientifiche, ma anche a tutto il suo pensiero, si rifaranno i nuovi filosofi e scienziati europei di fine Seicento e del Settecento, il Sarpi, la cui opera maggiore apparve per la prima volta in Inghilterra.

Dunque il secolo della decadenza è ancora un tempo che dà molto all’Europa a tutti i livelli: la decadenza italiana è principalmente politica, economica e sociale, ha le sue radici nel secolo precedente e i suoi effetti si faranno sentire principalmente nei tempi che seguiranno. A guardar piú da vicino la determina lo spostamento definitivo, già iniziato nel corso del Cinquecento, anzi all’indomani della scoperta delle rotte oceaniche verso l’estremo oriente e verso le Americhe, dell’asse economico del mondo occidentale dal Mediterraneo all’Oceano Atlantico, dall’Oriente prossimo alle Indie orientali, dal mercato finanziario fondato sui commerci delle antiche città italiane alle grandi imprese finanziarie che hanno come base la grande avventura coloniale moderna.

2. Tommaso Campanella

Agli sviluppi del piú ardito pensiero rinascimentale, quale abbiamo visto tradursi nell’opera del Bruno, si ricollega il pensiero del Campanella che tanto piú si feconda e si complica con nuovi elementi offerti dalla nuova scienza, fra Copernico e Galileo, con elementi fantastici, magici, astrologici, con spunti di ardente profetismo religioso, sociale e politico, urtando di nuovo, e con maggiore drammaticità, nelle direzioni autoritarie e oppressive della Chiesa della controriforma e del dominio spagnolo in Italia e specie nell’Italia meridionale, dove il Campanella nacque e passò gran parte della sua tragica vita.

Tommaso Campanella, grande e complessa personalità di pensatore, di militante, di poeta, nacque infatti a Stilo in Calabria il 1° settembre 1568 da una famiglia povera (il padre faceva il calzolaio) e in Calabria – divenuto presto frate domenicano – ebbe la sua prima formazione culturale e filosofica, poi ampliata e approfondita nelle sue peregrinazioni a Napoli (dove venne a contatto con le idee copernicane sul moto della terra intorno al sole e subí un primo processo e incarceramento), in Toscana, a Bologna, a Padova. Fra il 1593 e il 1597 la sua vita subisce una svolta decisiva, quando (in seguito a nuovi processi per eresia a Roma) è costretto a ritornare in Calabria e lí avverte i fermenti di rivolta delle masse popolari oppresse dal dominio feudale e spagnolo e si dedica a preparare una congiura intesa ad abbattere il dominio spagnolo e ad instaurare un nuovo ordine politico-sociale di tipo comunistico.

Tradito, viene arrestato il 6 settembre 1599 e – dopo aver subito la tortura ed essere riuscito a salvare la vita per mezzo di una simulata pazzia – subisce una prigionia di ben ventisette anni (durante i quali egli eroicamente reagirà alla privazione della libertà e ai disagi del carcere con la stesura della maggior parte delle sue opere filosofiche e poetiche) finché, liberato nel 1626, invano tenterà di riprendere la sua attività di sostenitore dei propri ideali in forme piú caute e piú all’interno della Chiesa cattolica: infatti una nuova congiura promossa da un suo discepolo (1634) fa di nuovo precipitare la sua situazione ed egli è costretto a fuggire a Parigi, dove viene accolto con favore dal Richelieu e dal re Luigi XIII e muore il 21 maggio del 1639.

Già questo breve riassunto biografico mostra nel Campanella la prepotente vocazione all’azione, la natura del suo pensiero, che, pur basato su di una profonda e ardua meditazione filosofica, tende a sfociare in prospettive attive e operanti per un rinnovamento della filosofia, ma anche della cultura e della vita religiosa, politica e sociale, cosí come esso si commuterà anche coerentemente – entro il fascio di forze della possente personalità campanelliana – in vera e propria poesia: essa stessa poesia profetica e mai priva di organici riferimenti al pensiero e all’azione.

Impossibile qui è descrivere le complesse idee filosofiche del Campanella che, partendo dalla base del pensiero meccanicistico e naturalistico del Telesio, si apre la via ad una interpretazione piú attiva del sensismo telesiano (fondato sul dualismo di calore e freddo) e, mentre accoglie la tesi copernicana del sistema eliocentrico, punta su Dio “anima del mondo”, da cui dipende la mente umana con la sua attività conoscitiva e con la sua capacità magica-creativa, soprattutto còlta nella sua volontà e possibilità di dominare gli eventi, di poter regolare le religioni (fra cui quella cristiana è la piú vicina a quella naturale), le leggi, la società, senza mai perder di vista le offerte della natura nelle differenze da essa create di attitudini e capacità nei vari uomini e nelle varie situazioni ambientali e storiche.

Nasce cosí dal seno stesso della filosofia campanelliana (espressa in numerose opere in latino e in italiano) l’esigenza di una prospettiva pratica e politica concretata soprattutto in un’opera affascinante e vigorosa: quella Città del sole (scritta nel 1602 in carcere) che, se riprende una lunga tradizione umanistica circa la “città”, la “repubblica” perfetta da contrapporre alla realtà imperfetta e corrotta (e si ricordi almeno l’Utopia dell’inglese Tommaso Moro), piú fortemente e meno utopisticamente si ricollega all’interpretazione campanelliana di concrete istanze e fermenti di rinnovamento dell’umile popolo calabrese sottoposto alla tirannia dei signori feudali e dell’esoso dominio spagnolo, quali si eran venuti configurando nella stessa fallita congiura del 1597-1599, intesa alla creazione di una repubblica calabrese e guidata dal Campanella.

Come nelle stesse rozze dichiarazioni di alcuni congiurati popolari al processo che seguí alla fallita congiura, cosí, in forma tanto piú sicura e geniale, nella Città del sole emerge l’idea di una repubblica ispirata alle leggi della natura, fondata sulla comunità dei beni, sull’eguaglianza di risorse economiche, sull’abbattimento delle differenze e delle ingiustizie sociali tanto potentemente presenti nella disperata situazione delle plebi meridionali e tanto duramente mantenute dagli interessi congiunti dei proprietari, del governo spagnolo e della stessa Chiesa controriformistica, alleata di spagnoli e feudatari.

La Città del sole (in cui un personaggio immaginario – un genovese, già nocchiero di Colombo – racconta il suo viaggio in un’isola dell’Oceano indiano ed espone le usanze della città “perfetta”, Taprobana, che vi visitò) esprime altamente ciò che piú stava a cuore al grande frate calabrese: l’instaurazione in terra di una società giusta, retta da un governatore e sacerdote, aiutato da tre ministri, che rigorosamente – dopo aver soppresso la proprietà privata e la famiglia – regolano i matrimoni, l’istruzione, il lavoro in comune. E, se è evidente il limite utopistico di tale costruzione (specie di fronte alla situazione del tempo), andrà pur ribadito che essa corrispondeva ad esigenze concrete del preciso ambiente in cui essa maturò (e alla cui estrema miseria e ingiustizia reagiva traducendone il disperato bisogno di eguaglianza e di giustizia) e alla prepotente aspirazione del grande riformatore in lotta con una realtà sociale e politica giustamente aborrita e tenacemente combattuta con tutte le forze della sua grande personalità. Né andrà dimenticato il fatto che la Città del sole, pur avversata e criticata, mantenne un suo fascino attivo per secoli nella faticosa elaborazione di ideali e pensieri tesi all’eguaglianza comunitaria e comunistica.

D’altra parte la stessa Città del sole (come in genere le altre opere filosofiche e politiche del Campanella) è documento di una forza autentica di scrittore, spesso scabro e rude, ma non certo incolto e inesperto, e anzi programmaticamente inteso a sostenere in pratica (cosí come egli fece a volte teoricamente combattendo contro la concezione aristotelica della poesia e, significativamente, contro il Tasso, iniziatore di una poesia, a suo avviso, troppo molle, sentimentale, contemplativa) un tipo di letteratura, di poesia nutrita di alti pensieri, portatrice di messaggi utili agli uomini e alla loro vita.

A tale prospettiva (bene esplicita nel primo sonetto riportato nella parte antologica di questo manuale) corrispondono le liriche del Campanella ispirate da una volontà di esaltare poeticamente le verità filosofiche e i valori e le virtú umane, che il pensatore ha elaborato e individuato nella sua filosofia e di cui egli soprattutto ha vissuto e sofferto il drammatico sviluppo e la drammatica affermazione nel tormento del suo pensiero e della sua lotta quotidiana di riformatore, di profeta, di perseguitato e di martire in un mondo ostile alla verità e alla virtú.

Cosí le sue liriche vogliono essere insieme voce della verità e voce del proprio dramma e del proprio impegno di lotta e da ciò ricavano le loro piú fiduciose ed eroiche affermazioni e anche i loro momenti di abbandono, di delusione, di stanchezza, carichi di doloroso sdegno e di dolorosa constatazione delle difficoltà della stessa lotta per la verità e per l’affermazione delle capacità creative dell’uomo.

Poesia intellettuale e profondamente umana, la lirica del Campanella è tutt’altro che facile e facilmente comprensibile e richiede lettori capaci di intenderne gli alti problemi che vi fermentano e vi si esprimono in specie di “filosofar poetando” che impegna insieme qualità fantastiche e filosofiche e tanto si distingue dalla immaginosità sensuale e dal semplice giuoco di concetti e di metafore di quella poesia barocca, di cui il Campanella era esplicito e deciso avversario, quanto piú egli intendeva la poesia come sprone all’agire e non come blandimento dei sensi e mezzo di evasione dalla realtà e dalla storia degli uomini.

3. Paolo Sarpi, la storiografia minore e la trattatistica politica

Altro grande rappresentante dello sviluppo del pensiero rinascimentale, della sua maturazione a contatto dei grandi avvenimenti storici che si svolgono fra la seconda metà del Cinquecento e il primo Seicento, della sua eroica resistenza al peso crescente della Controriforma cattolica che conduce una lotta autoritaria, illiberale, soffocatrice del libero pensiero, della fondazione di una civiltà e spiritualità laica eppure a volte autenticamente cristiana ed evangelica, è Paolo Sarpi.

Nato a Venezia il 24 agosto 1552, il Sarpi entrò giovanissimo nell’ordine religioso dei Servi di Maria e presto vi si affermò, giungendo all’alta carica di procuratore generale, e come tale soggiornando per tre anni a Roma, dove egli poté fare diretta e amara esperienza del crescente spirito autoritario della Chiesa, della difficoltà e, alla fine, impossibilità della sua profonda aspirazione alla vittoria di quelle forze di minoranza che all’interno dell’organizzazione ecclesiastica si battevano per un cosí diverso indirizzo di riforma cattolica in senso democratico e vicino alle origini evangeliche del cristianesimo. Rientrato nel 1590 a Venezia, il Sarpi verrà sempre piú distaccandosi dalla Chiesa e persino dal gruppo di riformatori a lui piú vicini e ancora attivi nel suo Ordine, avvicinandosi invece, in Padova (dove già da giovane aveva studiato scienze mediche, fisiche e matematiche), a Galileo e alla sua nuova scienza e insieme iniziando la sua collaborazione con il governo della Repubblica veneziana impegnato in una difficilissima lotta con il papato e la Spagna che insidiavano la sua indipendenza e la sua tradizione di libertà culturale e religiosa. Proprio nel momento piú esplosivo di questa lotta – quando il papa Paolo V, nel 1605, aveva lanciato la scomunica e l’interdetto contro la repubblica ribelle e rea di non aver voluto recedere dalle sue nuove leggi sulle proprietà ecclesiastiche e dalla sua decisione di non deferire a tribunali ecclesiastici due preti accusati di gravi reati comuni – il Sarpi prese un posto decisivo nella grande controversia che opponeva lo stato veneto, ormai in declino quanto a potenza, alla Chiesa romana risoluta ad affermare la sua autorità indiscussa sui rapporti fra chiesa e stato in tutti gli stati di religione cattolica.

Al Sarpi, come ad altri giuristi e religiosi veneti, il governo di Venezia richiese un “consulto” circa il proprio diritto in quella controversia e la propria linea di difesa contro le sanzioni giuridico-spirituali della Sede Apostolica. E il Sarpi, ben diversamente dagli altri piú cauti consiglieri, aveva risposto affermando decisamente il diritto dello stato veneto di far leggi anche sui beni ecclesiastici in piena autonomia e in piena indipendenza da ogni pretesa della Curia romana. Divenuto, per tale sua posizione decisa, “teologo-canonista” ufficiale della Repubblica, il Sarpi finiva, in altri suoi scritti, per entrare direttamente in polemica con la Chiesa e, quando – risolta in maniera piuttosto incerta la controversia dell’interdetto – egli nel 1607 fu ferito da tre stilettate infertegli da sicari della curia romana, tanto piú la sua posizione di ardito combattente e di pugnace difensore dei diritti dello stato contro le pretese ecclesiastiche venne a rafforzarsi e ad inserirsi in una lotta spirituale e politica di portata europea. Il Sarpi, mentre favoriva il tentativo dello stato veneto di trovare alleanze nel campo degli stati protestanti, entrò in corrispondenza con alte personalità protestanti e con altre che nello stesso campo cattolico intendevano opporsi, come lui, all’onnipotenza della Chiesa romana e promuovere una prospettiva religiosa piú libera e democratica, evangelica.

Con alternanze di momenti di sconforto e di volitiva fiducia nell’azione (specie nel campo della politica estera veneziana, nei suoi rapporti con stati piú liberi dalla soggezione a Roma e alla Spagna e specie con l’Inghilterra), il Sarpi condusse avanti una doppia attività pratica e scrittoria, collegata alle sue speranze politico-religiose.

E, se esse vennero praticamente battute con la battaglia della Montagna Bianca del 1620 (in cui le forze cattoliche piegarono quelle protestanti), con i tentativi del governo inglese di venire ad un accordo con la Spagna e persino con Roma e con il prevalere nella stessa Venezia di elementi “papalini”, il Sarpi non mancò mai di difenderle con i suoi scritti e con una coraggiosa resistenza ad ogni minaccia o lusinga ecclesiastica, fino alla morte, avvenuta il 15 gennaio 1623, quando egli rifiutò la confessione e l’estrema unzione, accettando l’unico sacramento per lui valido: la comunione.

Anche questo particolare aiuta a comprendere la prospettiva religiosa fondamentale di questo grande spirito: una prospettiva che non si identificava con quella protestante luterana (con cui aveva tanti punti in comune) nella sua aspirazione alla comunità intera dei cristiani (di cui il sacramento della comunione era profondo simbolo) quale si era avuta alle origine del cristianesimo, quando la chiesa primitiva si era organizzata in maniera democratica e aveva vissuto la sua grande stagione di purezza intransigente, di rifiuto assoluto delle tentazioni mondane di ricchezza e potenza, realizzando cosí il messaggio autentico di Cristo e la totale ed egualitaria partecipazione dei fedeli alla vita della propria organizzazione.

A tale prospettiva religiosa, sempre piú maturata nelle vicende e nelle esperienze esaltanti e amarissime della sua vita combattiva e coraggiosa (uno degli esempi alti di vite impegnate e impavide che si ergono nella nostra storia in mezzo a tante vite prudenti o addirittura vili, portate avanti con sapienti compromessi e utilitaristiche concessioni), si lega fondamentalmente l’attività del Sarpi nelle sue stesse battaglie politiche a favore dell’indipendenza della repubblica veneta, poiché la stessa distinzione sarpiana fra la laicità dello stato e la vita religiosa si riconduce anzitutto alla sua stessa profonda religiosità che si considera diminuita e snaturata dalle tentazioni mondane della Chiesa quando essa aspira ad un potere che non solo non le spetta ma, ripeto, la snatura e la contamina.

Ma a questa prospettiva religiosa e politica il Sarpi adibisce una potente forza di storico-scienziato che, sempre commisurando il passato alle esigenze di ideali e valori (il vero storico ha sempre una sua prospettiva e non può mai essere opacamente neutrale e assolutamente “spassionato”), vuole insieme verificare lucidamente i fatti narrati, dimostrarli con prove e documenti, con un metodo che risente indubbiamente della stessa educazione scientifica del Sarpi e s’ispira al rinnovamento del metodo sperimentale galileiano.

Per questo il suo capolavoro è costituito (accanto a tanti scritti pur interessanti e legati alla sua battaglia in difesa dello stato veneto o al suo epistolario molto considerevole e utile a meglio lumeggiare la sua vastità di rapporti con personalità italiane e straniere e il suo carattere morale severo e coraggioso) da una grande opera storica: quell’Istoria del concilio tridentino (fatta da lui pubblicare a Londra nel 1619 sotto lo pseudonimo anagrammatico di Pietro Soave Polano) che lo occupò a lungo sia per la stesura sia per la preliminare raccolta dei documenti necessari a dare base e certezza concreta alla sua narrazione delle vicende del famoso concilio e alla sua stessa dimostrazione del sostanziale fallimento di quel concilio rispetto all’opera di purificazione, di democratizzazione, di accoglimento di tutti i cristiani che se ne poteva attendere e che invece fu capovolta in un irrigidimento delle tendenze della chiesa romana al dominio temporale, all’organizzazione gerarchica e monarchico-assolutistica (tutto il potere al papa), alla persecuzione di ogni deviazione da leggi e dogmi rigidi e indiscutibili.

Tale tesi centrale alla grande opera del Sarpi (piú volte accusata di faziosità da parte cattolica, ma mal confutabile nella sua fondamentale verità) viene a dispiegarsi grandiosamente nelle due parti essenziali della narrazione (la prima che giunge, attraverso la storia della riforma protestante e degli atteggiamenti della Chiesa e dei príncipi di fronte ad essa, fino all’apertura del Concilio nel 1545; la seconda che direttamente espone le vicende del Concilio stesso in tutte le fasi delle sue discussioni e decisioni), adoperando un complesso strumento stilistico, dominato da una estrema lucidità, privo di ogni facile attrattiva descrittiva e retorica, teso soprattutto all’efficacia, ma non mancante di un sapiente uso di diversi toni che giungono, da quello predominante della lucidità distesa e pacata, fino a forme piú aspre e ironiche, ora bonarie, ora spietate e insistenti, specie quando piú si precisa l’attacco alla Chiesa romana, al papato, magari alla stessa nazione italiana insensibile ai richiami piú profondi del cristianesimo.

Dalla lettura di quell’opera risulta cosí un indubbio effetto di grandiosità drammatica, tanto è il rilievo che – attraverso l’accumularsi sicuro di prove, di documenti riportati e interpretati – vien dato a questa “Iliade del secol nostro”, come il Sarpi definiva il concilio tridentino, vedendovi insieme una catastrofe di speranze e un consolidamento delle peggiori tendenze della Chiesa, con tutte le loro conseguenze sulla vita religiosa e sulla vita politica e civile dei popoli cattolici e in particolare di quello italiano. E insieme, in una storia che pur sente la sproporzione fra i disegni degli uomini e la volontà di un Dio che quei disegni travolge o porta a diverso fine, non può non colpire il lettore il fatto che in primo piano sono gli uomini e che lo sguardo acuto del Sarpi non si ferma mai alla semplice registrazione dei fatti, ma ne illumina le ragioni e gli sviluppi proprio puntando sulle singole ragioni, interessi, caratteri umani delle diverse personalità che operarono nel Concilio.

E cosí attraverso l’opera del Sarpi ancor meglio si può capire la complessità dello stesso Seicento nei suoi rapporti con il Concilio di Trento e la Controriforma cattolica: da una parte il trionfo di una Chiesa mondana e autoritaria, promotrice e complice del dominio spagnolo e delle condizioni semifeudali della società italiana, dall’altra le vittime come Campanella, Sarpi e Galileo, promotori e sostenitori di un diversissimo costume morale e di un abito scientifico che, riprendendo l’eredità piú gloriosa della civiltà rinascimentale, aprono nuove vie alla scienza, alla storiografia, alla stessa letteratura e preparano, dopo il barocco e la sua civiltà, la grande ripresa di vita, di cultura, di letteratura del Settecento.

A gran distanza dall’alto impegno morale, religioso e politico del Sarpi stanno altri storiografi e trattatisti di politica secenteschi. Fra i quali troviamo, da una parte, alcuni continuatori delle concezioni e della pratica della storiografia umanistico-rinascimentale, come il sarzanese Agostino Mascardi (1590-1640), che nel trattato Dell’arte istorica discorreva dello stile da adottare nello scrivere di storia e di come dovessero essere inserite in essa le orazioni, le descrizioni e le sentenze, mentre nella Congiura di Gian Luigi Fieschi si proponeva di mettere concretamente in atto quelle sue concezioni storiografiche; dall’altra, invece, troviamo letterati che aderiscono piú complessamente al movimento generale del secolo, come accade nel caso del cardinale Sforza Pallavicino (1607-1667), letterato e teorico della letteratura, oltre che storico e filosofo. Contro l’opera del Sarpi e su ordinazione della Curia romana, egli stese una Storia del Concilio di Trento (pubblicata nel 1664), fondata su un’informazione di prima mano, potendo egli attingere ad una grandissima quantità di atti e di documenti di quell’avvenimento, scritta con stile ricercato, abilissimo nel maneggio degli strumenti retorici di una ricca cultura letteraria, perfettamente assonante con i gusti del tempo, anche se in una forma piú moderata, e tuttavia assai fredda come risultato, sia da un punto di vista artistico e letterario, sia da un punto di vista concettuale e storiografico.

Qualcosa di diverso accade, invece, nella Istoria delle guerre civili di Francia di Enrico Caterino Davila (1576-1631), che in quindici libri narra le vicende dei conflitti che opposero cattolici e ugonotti nel periodo che va dalla morte di Enrico II alla vittoria di Enrico IV di Francia, conflitti che aveva potuto studiare da vicino avendo soggiornato in Francia fin da fanciullo, e poi per sedici anni, prima come paggio, poi come soldato e come cortigiano. Il Davila è animato principalmente da una forte curiosità psicologica, per cui con profondità è capace di indagare nell’intimo degli uomini, metterne in luce pregi e difetti e anche gli intenti piú segreti. Ma poi egli sa anche far corrispondere pienamente quelle psicologie pazientemente e minutamente indagate alle azioni e ai fatti: sa dipanare lucidamente questi ultimi, farli emergere dall’intrico degli interessi contrastanti, delle contraddizioni, delle incertezze. E in questa direzione opera con uno stile lucido, fornito di rare facoltà di ordinamento e insieme volto a mettere in evidenza la densità drammatica di certi avvenimenti, come nella descrizione dell’eccidio della notte di San Bartolomeo (24 agosto 1572), quando i cattolici massacrarono gli ugonotti giunti in gran numero a Parigi per celebrare le nozze di Enrico di Borbone con Margherita di Valois, descrizione tanto piú rilevante in quanto lo scrittore racconta freddamente, impegnato a registrare paure e incertezze, ferocia ed eroismo, senza giudicare, lasciando parlare i fatti nella loro enormità.

Freddezza di racconto e insieme ricco senso della tensione drammatica degli avvenimenti che si trovano anche nella Storia della guerra civile di Fiandra del nunzio pontificio in Fiandra Guido Bentivoglio (1579-1644), dove è narrata la rivolta dell’Olanda contro Filippo II di Spagna, e, ad un livello di meno esperta letteratura, nella Istoria delle guerre civili di questi ultimi tempi di Maiolino Bisaccioni, anch’egli, come il Davila, soldato e avventuriero, oltre che autore di storie romanzate che ricorderemo piú avanti.

Ma non meno fertile che quello della storia fu nel Seicento il campo della trattatistica politica. Termine di partenza, e anche di confronto, fu naturalmente il Machiavelli, riprovato e spesso condannato severamente in età controriformistica per ragioni moralistiche, per aver cioè teorizzato della politica separatamente dalla morale, ma anche riassorbito e fatto circolare largamente nell’elaborazione di una meditazione che non lo poteva ignorare, anche se neppure poteva capire nella giusta direzione il suo pensiero politico e gli atteggiamenti che egli aveva assunto dinanzi alla realtà storica del suo tempo. D’altronde occorre dire che, se Machiavelli veniva sommariamente condannato, e perfino diveniva una sorta di idolo polemico contro cui scaricare tutto il male e frattanto procedere all’elaborazione di posizioni ben piú immorali (si ricordi che è appunto la trattatistica dell’età controriformistica che formula la massima secondo la quale «il fine giustifica i mezzi», credendo di mutuarla, in parte per malizia, in parte per vera incomprensione, dal Machiavelli, che aveva invece sostenuto la necessità della perfetta coerenza tra mezzi e fini), come quella della “ragion di stato”, che diventa un’urgenza fortissima della politica del tempo, per lui si trovano talvolta giustificazioni complicate, come accade nel Boccalini che, ironicamente, lo dichiara da condannare per aver voluto insegnare ai popoli le malizie e le violenze dei potenti.

In un modo o nell’altro (e anche nella direzione di una condanna motivata per piú vere e profonde ragioni religiose talvolta) Machiavelli sta, però, alla base della grande fioritura di opere di meditazione politica che si hanno tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento. Cosí, già nelle varie opere che il veneziano Paolo Paruta (1540-1598) dedicò alla politica (il Soliloquio, sorta di confessione dei propri dubbi e interiori contrasti, i tre libri Della perfezione della vita politica e i Discorsi politici) il problema piú importante è quello del rapporto tra politica e morale. Il Paruta fu personaggio di rilievo nella repubblica veneziana, ebbe importanti uffici che assolse con alto senso di responsabilità civile e morale: e la qualità dell’uomo politico egli difese contro l’ascetismo delle concezioni controriformistiche. Ma l’uomo politico deve principalmente, nel suo pensiero, essere virtuoso e perseguire strenuamente la felicità terrena dei cittadini; per questi, e non per sé, egli dovrà conservare il potere e lo stato. Un buon ordinamento civile non si può del resto dare senza la libertà regolata dalle leggi, vero dono di Dio e strumento unico della buona politica: «Chi commette il governo della città alla legge – egli scrive –, la raccomanda ad un Dio; chi lo dà in mano all’uomo, lo lascia in potere di una fiera bestia». Per questa via il Paruta cercava di conciliare la sua situazione di uomo politico impegnato nella vita civile della sua patria con le sue esigenze spirituali e religiose, che alla fine ebbero in lui il sopravvento, segno di una condizione di crisi vissuta ad un livello complesso e profondo.

Documento, invece, di come la profonda crisi vissuta dal Paruta non sia piú presente in quei termini è il trattato Della ragion di stato di Giovanni Botero, che per piú versi può essere considerato il rappresentante tipico della cultura e della disposizione morale e politica del passaggio dal Cinquecento al Seicento.

Fu egli un letterato assai colto e lasciò opere in prosa e in versi di vario argomento e natura (prediche, orazioni, trattati sull’oratoria sacra e sulla letteratura): nato a Bene, in Piemonte, nel 1544, entrò quindicenne nell’ordine dei gesuiti senza però arrivare mai a pronunciare i voti definitivi, uscendo anzi dall’ordine a 36 anni, per divenire prima familiare di Carlo Borromeo, quindi segretario del cardinale Federico Borromeo, poi agente in Francia di Carlo Emanuele I di Savoia e precettore in seguito dei principi sabaudi, e trascorrere infine gli ultimi suoi anni alla corte di Torino, dove morí nel 1617. Vita inquieta, come si vede, ma fatta di un’inquietudine non fertile, tesa essenzialmente a convogliarsi in un ordine non intimamente regolato dalla coscienza, ma piuttosto esteriore e fragile. Questa situazione umana e storica si registra bene nel trattato citato, pubblicato nel 1589 e fondato sullo sforzo di conciliare politica e morale, sostanzialmente affermando la preminenza di questa su quella, polemizzando quindi con Machiavelli senza averlo compreso nel suo vero significato, e finendo poi con il proporre, dinanzi alla constatazione che nel mondo politico la forza prevale sulla ragione, un’immagine di principe in cui politica e morale convivano pacificamente, in cui l’onesto e l’utile non entrino in conflitto, in cui bene pubblico e bene privato coincidano. E questa immagine del principe “prudente”, che sostituisce quella machiavellica del principe “virtuoso”, è delineata minutamente (fino a scendere a dare consigli pratici e circostanziati al principe), ma freddamente, testimonianza che manca nel Botero, come in genere alla sua età, una forte passione politica e in fondo anche una forte passione religiosa. Il pensiero del Botero costituisce una base teorica della tendenza assolutistica dei principi del tempo, per cui non esiste differenza tra il diritto privato e il diritto pubblico; esso continuerà ad imperare generalmente fino al Settecento e oltre.

Una diversa e ben piú lucida impostazione del rapporto tra politica e morale si ha invece nel Seicento in Ludovico Zuccolo di Faenza, il quale in un saggio sulla Ragion di stato, inserito nelle sue Considerazioni politiche e morali sopra cento oracoli di illustri personaggi antichi (1621), spiega come la ragion di stato, cui il principe provvede con “prudenza” e “avvedutezza”, che non sono termini antitetici ma sostanzialmente analoghi in quanto il buon principe sa che la miglior avvedutezza è la prudenza, non sia di per sé né buona né cattiva e diventa l’una o l’altra cosa a seconda del governo cui si applica; nella sua sostanza essa è semplicemente «un operare conforme all’essenza o forma di quello stato che l’uomo si ha proposto di conservare o costituire». È chiaro che nello Zuccolo il problema machiavellico del rapporto tra politica e morale era avvertito in modo ben profondo: era ciò che stava a cuore riconoscere e individuare ai piú, i quali però vi riuscivano scarsamente, come possono testimoniare i sette libri Della ragion di stato (1627) di Ludovico Settala, che cerca di sviluppare fino alle sue ultime conseguenze e non senza prolissità gli elementi fondamentali del saggio dello Zuccolo.

In un’altra direzione si muoveva il pensiero politico del secolo nel Tacito abburattato (1643) del genovese Anton Giulio Brignole-Sale, dove si trova un’idea della politica come acuta penetrazione dell’animo degli uomini, dei loro interessi pratici e dei loro intenti: direzione questa che parecchi scrittori del Seicento svolgevano nel contatto, e spesso nel commento, per mezzo del quale facevano riferimento agli avvenimenti politici correnti del loro tempo e ai personaggi maggiori di essi, con l’opera dello storico latino del I sec. d.C. Cornelio Tacito, acuto e cupo descrittore degli imperi da Tiberio a Domiziano. Questo interesse per Tacito diede avvio ad una vera e propria corrente di pensiero storico e politico, che prese appunto il nome di “tacitismo” e che, insieme a scrittori come il leccese Scipione Ammirato e al bolognese Virgilio Malvezzi, annoverò Traiano Boccalini, del quale parleremo piú avanti in quanto le sue riflessioni politiche, spesso disordinate, non si possono distaccare dalle sue motivazioni letterarie. Il “tacitismo” colora di pessimismo la meditazione politica e l’osservazione storica di questi scrittori, orienta la loro ricerca verso l’intimo animo dei tiranni, ne svela l’obbrobrio e la sete di potere e di violenza sui cittadini e sulle leggi, indicando in essa l’origine stessa dei governi correnti.

Un cenno a parte merita qui la posizione, anch’essa del resto non mediocremente intrisa di tacitismo, del napoletano Torquato Accetto, che nella Dissimulazione onesta (1641) vuol dimostrare come prudenza e onestà camminino insieme. Siamo ai margini di una vera meditazione politica, in quanto le proposte dell’Accetto valgono per chiunque, insegnando che per vivere felicemente occorre essere modesti nel considerare se stessi, discreti nel valutare le cose mondane, rispettosi nei rapporti sociali. Solo cosí l’uomo riuscirà a sopportare le alternanze della fortuna, lo spettacolo dei malvagi e degli inetti che hanno sempre il sopravvento sui buoni e sugli esperti. E questa saggezza, fatta di gentilezza e di nobiltà d’animo, intesa a delineare un modo di vita sobrio e intenso, tutto interiore, si riflette vivamente sulla scrittura, piena e disadorna, schiva di ornamenti e informata ad una serietà morale che è abbastanza singolare in tempi di esaltazione barocca. D’altronde tale posizione non è unica e lo vedremo subito nella delineazione di un’altra grande figura morale, e tanto maggiore per il posto stesso che occupa nella storia della cultura europea, quale è quella dello scienziato, ma anche grande letterato, Galileo Galilei.

4. Galileo Galilei

Durante il corso del Cinquecento e sulla spinta delle idee umanistico-rinascimentali di una scienza utile alla vita degli uomini (si pensi già alla fine del Quattrocento a Leonardo e alle sue ricerche tecniche volte persino a primi tentativi aeronautici) si era venuto delineando l’aspirazione ad un tipo di scienza applicabile alla tecnica e tuttavia non rinunciante alle piú ardue meditazioni sulla natura e sulla sua effettiva realtà liberata dal peso delle pure ipotesi religiose e metafisiche, dalla tradizione di un pensiero puramente contemplativo e dall’autorità assoluta di teorie immutabili e sancite dalla forza della Chiesa, specie dopo il suo irrigidimento testimoniato dal rogo di Giordano Bruno e piú tardi dal processo a Galileo.

Proprio Galileo fu l’uomo che realizzò nella forma piú alta e grandiosa (egli fu certo la piú grande personalità e il piú grande scrittore del Seicento) la figura dello scienziato filosofo e tecnico, capace di promuovere una svolta decisiva del pensiero moderno fondato sulla sicurezza dell’esperienza e sulla prospettiva di una filosofia attiva, interamente umana, liberatrice delle forze autentiche della ragione da ogni limite di autorità tradizionale, teologica ed astratta. Ed egli perciò visse un dramma personale e storico, culminato nel processo e nel confino che volle imporre il silenzio alle sue ardite conquiste scientifiche e che tuttavia non riuscí ad impedire a queste la loro affermazione e feconda diffusione, sia nella scuola sperimentale italiana da lui promossa, sia nel piú largo campo della nuova scienza e del nuovo pensiero europeo.

Galileo Galilei nacque a Pisa il 15 febbraio 1564 da un’antica famiglia fiorentina di alta borghesia e di nobili tradizioni civili e culturali, ben rappresentata anche dal padre, Vincenzo, che già ricordammo come uno dei protagonisti di quella camerata dei Bardi in cui letterati e musicisti posero le basi del melodramma. Proprio nel vivace ambiente fiorentino il giovane Galileo, che nell’università di Pisa aveva studiato matematica e fisica (e aveva precocemente applicato le sue cognizioni nella celebre scoperta dell’isocronismo delle oscillazioni del pendolo), trovò – negli anni fra il 1585 e il 1589 – stimoli e incontri che vennero allargando il suo orizzonte culturale e letterario sicché egli poté insieme eseguire alcune geniali invenzioni, come quella della bilancetta idrostatica per misurare il peso specifico dei corpi, e applicare la sua rigorosa perizia matematica alla misurazione della topografia dell’Inferno dantesco, mirabilmente interpretato e inteso mercé la sicura padronanza linguistica di quel testo poetico. Cosí come il suo fervido ingegno in via di progressiva maturazione poteva – in un nuovo soggiorno dall’89 al ’92 a Pisa, quando egli vi fu professore di matematica – esprimersi contemporaneamente in una piú decisa prova del suo gusto estetico (le Considerazioni al Tasso e le Postille all’Ariosto, che esaltavano la superiorità di fantasia mirabile e spregiudicata, grandiosa, organica e lucida del poeta del Furioso), in un attacco durissimo, in versi, contro la mentalità retriva dei costumi accademici (Contro il portar la toga) e in un approfondimento delle sue esperienze e delle sue meditazioni scientifiche proseguite piú alacremente e liberamente nel fecondissimo periodo passato a Padova come professore di matematica.

I diciotto anni padovani (dal 1592 al 1610) furono fondamentali nella vita di Galileo. Ché, se pure a Padova incontrò difficoltà economiche che lo obbligavano a disperdere parte delle sue energie in lezioni private per mantenere la compagna e i tre figli che ne ebbe, in quell’Università il grande scienziato poté godere della libertà che la repubblica veneziana assicurava ai suoi docenti, difendendoli contro la Chiesa e l’Inquisizione, trovò stimolanti amicizie come quella del Sarpi e del Sagredo, e in tale ambiente propizio poté svolgere una formidabile attività scientifica, l’elaborazione di esperienze in leggi scientifiche, come quella sulla caduta dei gravi e come la invenzione del cannocchiale o telescopio che Galileo perfezionò e potenziò rispetto a simili strumenti già in uso in Olanda e in Francia potendosene cosí servire per indagare il cielo stellato scoprendo i quattro satelliti di Giove, le macchie della luna, le fasi di Venere.

Cosí tecnica e scienza si univano genialmente e Galileo portava luce nel misterioso mondo celeste confermando, sulla base dell’esperienza, le ipotesi del sistema copernicano e la falsità di quello tolemaico tenacemente difeso dagli scienziati tradizionalisti e dai teologi.

Perciò l’annuncio di quelle scoperte nel Sidereus Nuncius, pubblicato a Venezia il 12 marzo 1610, provocò un duplice e contrastante effetto. Da una parte conferí a Galileo una fama altissima e indusse il granduca Cosimo II de’ Medici a offrirgli il posto di “matematico straordinario” all’Università di Pisa senza obbligo di lezioni e di “filosofo del serenissimo granduca” (e cosí lo scienziato poté risolvere i suoi problemi pratici con un impiego altamente retribuito e senza obblighi scolastici); dall’altra scatenò contro di lui – e in un ambiente tanto meno sicuro di quello padovano – l’accanita persecuzione dei sostenitori della cultura tradizionale e degli ordini religiosi domenicano e gesuita, che vedevano nella scoperta e nel metodo galileiano una rivoluzione non solo scientifica e culturale, ma anche una minaccia, grave di conseguenze nel campo teologico e persino disciplinare, per la Chiesa. Ciò che, infatti, veniva rotto dalle scoperte di Galileo era il principio di autorità, il monopolio della scienza e della cultura da parte della Chiesa, la concezione del sistema geocentrico tolemaico-aristotelico-tomistico che la Chiesa gelosamente difendeva anche nei suoi raccordi con il racconto biblico della creazione del mondo con la terra al centro dell’universo e l’uomo come creatura insieme privilegiata e dominata da Dio e dalla sua Chiesa.

Galileo accettò l’impari lotta con intransigenza morale e intellettuale, perché persuaso della verità sperimentata del sistema eliocentrico, perché non disposto ad ammettere la teoria della doppia verità (quella scientifica e quella religiosa) e anche perché riteneva, forse piú ingenuamente, di poter dimostrare che i testi sacri non contenevano – se bene interpretati – affermazioni in vero contrasto con la verità copernicana e che la forza delle sue argomentazioni avrebbe finito per convincere i suoi avversari e per essere accolta dalla stessa Chiesa.

Invece le lettere copernicane con cui egli sviluppava le sue idee e le sue giustificazioni contro le accuse di eresia accrebbero la diffidenza delle gerarchie ecclesiastiche e provocarono una prima decisa condanna, nel 1615, del sistema copernicano-galileiano. E poiché – malgrado un’apparente accettazione da parte di Galileo – questi si immise di nuovo nella polemica suscitata nel 1618 dalla comparsa in cielo di tre comete e vigorosamente attaccò con il Saggiatore i potentissimi gesuiti (al cui ordine apparteneva il padre Grassi sostenitore, anche in quella occasione, del sistema tolemaico) e ancora piú decisamente – pur nella forma apparentemente piú neutrale di un dialogo a piú voci e nella speranza di trarre dalla sua parte il nuovo papa, Urbano VIII, piú aperto e illuminato – espose tutte le sue idee nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), egli venne convocato a Roma dal Sant’Uffizio, fu processato, riconosciuto colpevole e – cosa ancor piú grave e scellerata – costretto, debole, isolato, infermo e vecchio, ad abiurare contro coscienza.

Fallita cosí la speranza di Galileo di far riconoscere dalla Chiesa il suo sistema e la libertà della scienza, il vecchio scienziato fu condannato alla prigione a vita e poi al confino e all’isolamento, prima a Siena nella casa dell’arcivescovo di quella città, poi a Firenze, nella sua villa di Arcetri.

In quella villa, vecchio, deluso e cieco, Galileo consumò fino all’ultimo il suo dramma (che era insieme il dramma della scienza e del libero pensiero nell’epoca della Controriforma): solo confortato dalle cure amorose della figlia suor Celeste, poi, dopo la morte di questa, ancor piú indebolito dalla vecchiaia e dalle malattie, anche se (proprio perché appariva cosí inerme e meno pericoloso) gli fu permesso di prendere alcuni contatti con giovani scienziati della sua scuola.

Eppure, la formidabile forza morale e intellettuale del vecchio combattente per la cultura e per la scienza trovò pur modo di esercitarsi ancora nella stesura delle ultime opere (fra cui soprattutto i Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze: la resistenza dei materiali e la dinamica) e nella esecuzione di esperienze scientifiche in cui fu coadiuvato da alcuni suoi scolari come il Viviani e il Torricelli. Morí l’8 gennaio 1642.

Alla base della grandezza di Galileo come scienziato e scrittore è dunque da valutare anzitutto la forza inesausta della sua personalità umana e della sua tenace volontà di battaglia per un rinnovamento profondo della cultura che – pur nelle forme a volte un po’ ingenue di inserimento in alcuni spiragli del pesante clima della cultura ufficiale e della politica della Chiesa, malgrado alcuni momenti dolorosissimi di apparente accettazione delle condanne pronunciate da quella contro di lui – non fu mai realmente piegata e sconfitta. Sicché giustamente anche nelle stesse umiliazioni subite i posteri videro il segno di un ripugnante sopruso che voleva battere e negare in Galileo la forza di una ragione progressiva ed esaltarono in lui un “martire” e un “eroe” della ragione e del libero pensiero. La sua mente lucidissima e profonda fu riscaldata da una forte passione per la verità, da una persuasione ardente nella invincibile potenza della ragione fondata sui fatti, sulle scoperte e sulle dimostrazioni scientifiche e matematiche, sul metodo sperimentale di cui egli fu il massimo e concreto assertore nell’aprirsi faticoso e drammatico del mondo moderno.

Perciò egli condusse avanti una lotta di eccezionale valore (anche perché volle darle un carattere non aristocratico e specialistico, ma divulgativo) a favore dell’autonomia della scienza che si libera da ogni pregiudizio religioso e da ogni principio di autorità, a cominciare dall’ipse dixit, con cui gli aristotelici del suo tempo pretendevano subordinare ogni nuova ricerca alle affermazioni indiscutibili della filosofia di Aristotele, accettata nella sua forma piú immobilistica e scolastica dalla filosofia cattolica fino dal sistema medievale di san Tommaso. E se egli non giunse a delineare una vera e propria filosofia generale e si tenne saldamente sul terreno piú specifico della scienza naturale (basata, piú che sui libri, sulla conoscenza diretta del “libro della natura”), deve essere pur chiaro che cosí facendo egli profondamente incideva sul nuovo corso del pensiero filosofico moderno dando nuovo valore alla ricerca faticosa della verità, alla discussione critica, al rifiuto di ogni passività rispetto alle affermazioni tradizionali, e sostenendo di fatto una intuizione meccanicistica del mondo che si oppone ad ogni concezione metafisica, fideistica, spiritualistica, e che troverà grandioso sviluppo nella filosofia sensistica e materialistica del Settecento illuministico.

A tali grandiose linee generali si ricollegano le varie scoperte e formulazioni scientifiche di Galileo: prima quelle che riguardano la meccanica, i principi della dinamica (quello di inerzia e quello delle accelerazioni proporzionali) e l’impiego di quella che piú tardi sarà l’analisi infinitesimale; poi quelle astronomiche con cui Galileo rafforzò e rese definitiva la tesi copernicana del movimento della terra intorno al sole servendosi della possente arma della matematica, sia nella misurazione dei fenomeni, sia nell’esatta formulazione delle loro leggi e nella rigorosa deduzione delle conseguenze di queste a lor volta sottoposte alla verifica empirica.

Cosí egli offriva contributi essenziali alla scienza e insieme un metodo sperimentale valido alle stesse applicazioni tecniche e capace di sostenere la sua centrale e geniale visione di una scienza utile agli uomini, capace di servir loro nella conoscenza e nel dominio della forza della natura. Al centro di tutto è l’uomo, con le sue forze intellettuali e tecniche, con il suo rispetto della coerenza del ragionamento e dei dati dell’esperienza, con la sua lucida volontà di costruirsi una vita migliore, interpretando le leggi della natura e cosí meglio dominandola e sottomettendola ai propri fini e alle proprie esigenze.

Perciò il rigore dello scienziato si associa in Galileo alla passione per il rinnovamento del metodo e della cultura e al vigore polemico contro i tenaci ostacoli dell’ignoranza e della mentalità conservatrice e retrograda. E tale unione profonda di lucidità e di passione, di forza polemica, si traduce coerentemente in tutte le sue opere minori e maggiori per le quali, non a caso, ma per una scelta assai significativa, egli preferí sempre piú l’uso della lingua italiana (e non di quella latina tradizionalmente adottata dagli scienziati per la sua diffusione cosmopolitica, ma specialistica), come piú adatta ad una comunicazione piú vasta a ceti meno dotti e accademici e non perciò meno capaci di accogliere il nuovo metodo, di applicarlo in una vasta operazione tecnica ad ogni livello, di risentirne il benefico messaggio di libertà del pensiero e di rifiuto delle vecchie concezioni della scienza e della vita.

Fra le opere maggiori spicca anzitutto il lucidissimo e vivacissimo Saggiatore (1623), in cui la volontà educatrice di Galileo appare piú evidente, contrapponendo – nella difesa delle proprie tesi circa la natura e l’origine delle comete – due mentalità, due concezioni della natura e della scienza, due metodi e due linguaggi: da una parte, quelli dello scienziato retrivo e conservatore che sostiene le vecchie tesi aristoteliche con ragionamenti capziosi e astratti, ricorrendo alle vecchie forme del sillogismo, all’autorità della tradizione e persino alle leggende superstiziose, dall’altra, quelli del nuovo scienziato che dimostra la verità delle sue scoperte con un ragionamento coerente e organico, interamente razionale e scientifico, fondato sulla conoscenza diretta della realtà naturale.

Cosí la verità si afferma nel contrasto con tutto ciò che Galileo combatteva e che egli particolarmente illustra con un’inesauribile ricchezza di polemici e ironici rilievi della pedanteria ottusa, dell’erudizione caotica, della deformazione preconcetta, della boria di una falsa dottrina, con una geniale vena sorridente e superiore, con l’incisivo e fulmineo intervento dell’intelligenza nuova che di colpo distrugge fatue credenze inveterate e afferma, con aforismi spietati e ragionamenti acutissimi, la superiorità della luce balenante di un ragionamento inventivo e sperimentale rispetto al confuso e faticoso accumulo di nozioni e argomentazioni deboli e meschine:

Se il discorrere circa un problema difficile fusse come il portare pesi, dove molti cavalli porteranno piú sacca di grano che un caval solo, io acconsentirei che i molti discorsi facesser piú che un solo; ma il discorrere è come il correre, e non come il portare, ed un caval barbero [cioè un cavallo da corsa] solo correrà piú che cento frisoni [cioè lenti cavalli da tiro e da soma].

Ma certo anche piú impegnativo e maturo nello sviluppo della complessa opera galileiana di contemporanea affermazione di una nuova verità e di un nuovo metodo, e di polemica contro la scienza e la cultura tradizionalistica e retriva, appare il grandioso Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) che, sostenendo piú direttamente la verità del sistema astronomico copernicano, sceglie la forma apparentemente piú neutrale del dialogo a piú voci e che in effetti riesce ancor meglio a far risaltare nel contrasto di voci e personaggi diversi, del loro diverso modo di ragionare e di comportarsi, la sicurezza matura del nuovo metodo e le sue implicazioni: la necessità della libertà della scienza e della cultura, il nuovo rapporto fra uomo e natura, la posizione dell’uomo nella società. La verità scaturisce – in una scena concreta e storica contemporanea – non da una posizione anticipata e precostituita, ma dal vivo attrito fra i tre personaggi (Salviati, piú diretto interprete delle personali idee galileiane, Sagredo, suo sostenitore per persuasione e non per disciplina di allievo, Simplicio, rappresentante della cultura arretrata) vivi e realistici, e dal fluire libero e fertile del loro dibattito, ora teso e condotto ai nodi piú centrali e drammatici del problema discusso ora alleggerito in pause piú distensive e digressive, ma sempre organicamente funzionanti sia nel disegno artistico del dialogo, né monotono né dispersivo, sia nel continuo progredire del discorso.

Cosí il grande scienziato e il grande scrittore fanno tutt’uno e la grande prosa galileiana rivela la sua radice unitaria, la sua necessità interna e insieme la sua organica capacità di lucidità e di fantasia, la sua ricchezza di tono, di sfumature, di schiettezza priva di ogni artificio e di altissima coerenza tesa da un pensiero vigoroso e rigoroso.

Né sarà da dimenticare fra le grandi opere galileiane anche il piú tardo dialogo Discorsi intorno a due nuove scienze (pubblicato in Olanda nel 1638) che, attraverso la discussione degli stessi personaggi del Dialogo sopra i due massimi sistemi, illustra le due “nuove scienze” (la resistenza dei materiali e la dinamica) e, pur non parlando piú direttamente del sistema copernicano, in effetti lo difende ulteriormente, confutando definitivamente le obbiezioni di carattere meccanico che i “tolemaici” facevano a quello. In quest’opera, che da un punto di vista scientifico è la piú grande di tutte, il vigore polemico cede al tono sereno e sicuro del grande scienziato che enuclea, con voce ferma e limpida, le leggi matematiche della conoscenza della natura e del suo controllo da parte dell’uomo che cosí sempre piú appare il vero protagonista della propria storia e della propria civiltà e sempre piú si dimostra libero da ogni concezione acquisita e preconcetta, da ogni subordinazione ad autorità teologiche e tradizionali. Sicché, proprio nella sua calma superiore, quest’opera, scritta nel confino di Arcetri, costituisce la piú alta risposta di Galileo alla vittoria provvisoria dei suoi potenti avversari, alle persecuzioni e all’umiliazione suprema della condanna e dell’abiura impostagli dal Sant’Uffizio. Ed insieme documenta la varietà di toni e la coerenza sostanziale del pensiero e della prosa galileiana: una prosa che può passare dai toni violenti e sarcastici a quelli dell’indagine pacata, dal gusto del particolare lucidamente individuato e descritto all’armoniosa forza di uno sguardo sintetico e grandioso sui grandi fenomeni della natura universale, e sempre mantiene una coerenza altissima nella sua fusione di calore, di sobrietà, di nitidezza analitica e sintetica che la rendono classica e moderna, lontana da ogni concessione sia agli aspetti piú ornamentali e retorici di molta prosa umanistica e rinascimentale, sia alle forme sontuose e alle piú contorte e sofistiche elucubrazioni immaginose del barocco.

Non ingannino, rispetto al barocco, certo uso di metafore del tempo che si incontrano in quella prosa, soprattutto dove Galileo sembra voler portarsi sul terreno dei suoi avversari e colpirne cosí l’immaginazione con gli stessi strumenti stilistici a quelli piú congeniali.

E del resto gli stessi scritti dedicati da Galileo a veri e propri problemi letterari ed estetici (soprattutto le Considerazioni al Tasso e le Postille all’Ariosto, già da noi ricordate) ben dimostrano come il suo gusto letterario e poetico fosse in netto dissenso con le vere preferenze e i veri ideali del gusto barocco, che riconosceva nel Tasso il proprio piú vicino maestro, laddove Galileo attacca e svaluta il grande poeta della Gerusalemme proprio per quella mancanza di profonda esperienza concreta e di piú libera fantasia che egli invece trovava cosí altamente associate nella grandiosità inventiva e armoniosa dell’Ariosto. Egli, certo, non comprendeva la tormentata tensione del Tasso e la necessità personale e storica del suo linguaggio “artificioso”, ma in tale incomprensione ben si rivelava il gusto piú vero di Galileo per un’arte fortemente fantastica e alimentata di senso della realtà, per un’armonia limpida e luminosa (quella dell’Ariosto) e per un’unione profonda di libero pensiero e di libera fantasia.

E non a caso la fortuna dell’Ariosto sarà sostenuta durante il Seicento soprattutto da scrittori meno interamente barocchi e riprenderà maggior vigore proprio quando l’eredità del pensiero galileiano e della sua stessa prosa, ravvivata e rafforzata dalle nuove condizioni della cultura sperimentale e razionalistica del Settecento, sarà piú fortemente ripresa e tradotta in concezioni estetiche antibarocche.

5. La scuola galileiana

Proprio come una delle linee piú consistenti di continuità fra Rinascimento e civiltà settecentesca va considerata, nel campo della scienza e della prosa, l’attività e la produzione di prosa scientifica di quella scuola galileiana che ebbe il suo centro maggiore in Firenze e in Toscana, ma che non mancò di raccordi con altri centri italiani già segnati dal diretto insegnamento galileiano (il caso di Padova e Venezia) o venuti in contatto con la forte suggestione della sua riforma della scienza (il caso di Roma, dove Federico Cesi aveva dato vita, all’inizio del secolo, all’Accademia dei Lincei, intesa allo studio delle dottrine filosofiche e matematiche e a quello della filologia e della letteratura, uniti in un programma di comune costume scientifico moderno e di una cultura basata sull’esperienza e sulla sicurezza della verità razionale).

Piú direttamente collegato alla viva lezione del grande maestro fu anzitutto Benedetto Castelli (Brescia 1578-1643) che, professore a Pisa e a Roma e fondatore dell’idraulica (ma studioso anche di ottica e di termologia), raggiunse nella prosa dei suoi numerosi scritti scientifici una esemplare chiarezza, limpida e cordiale, una capacità di descrizioni e analisi minute e ariose dei fenomeni indagati e insieme una forza di ragionamento che lega le descrizioni e le riconduce alle loro leggi e alla loro utilizzabilità umana.

Cosí come diretto scolaro galileiano fu Evangelista Torricelli (1608-1647) che, portando importanti contributi alla matematica, alla fisica, all’ottica e alle loro applicazioni tecniche (come il barometro e le opere ingegneresche ed idrauliche per la bonifica della Val di Chiana), si serve nei suoi numerosi scritti di una prosa didascalica, variamente atteggiata ora in forme piú eleganti ora in forme piú polemiche, ma sempre contraddistinta da una singolare lucidità razionale, da una concretezza e da una aderenza alle cose trattate che intimamente corrispondono ad uno spirito sperimentale mai appagato da affermazioni che non trovino riscontro effettivo nella realtà naturale. Sicché egli potrà serenamente sostenere che il vero scienziato deve avere il coraggio di mutare anche l’opinione piú meditata, quando essa venga smentita dalla prova concreta della sua irrealizzabilità:

Se ne’ ragionamenti fatti sopra l’impresa della Chiana si fosse concluso concordemente da tutti i matematici ed ingegneri del mondo che l’opra sia possibile, e poi in effetti e realmente ella non fusse possibile, io credo che non riuscirà mai. Non basta avere la confessione, l’accordo de’ periti, ma si vuole il consenso della natura stessa. Quando questo manchi, il consenso di tutti i periti della terra, ancorché persuasi e convinti sarà sempre nullo... e deve stimarsi a gloria quello che non imputerà mancamento a sé il mutarsi dell’opinione, quando nelle contese naturali si conosca d’aver preso la difesa della falsità.

A Galileo e all’opera di questi suoi scolari diretti (fra i quali dovranno almeno ancora ricordarsi Giuseppe Alfonso Borelli e Vincenzo Viviani) si rifecero piú tardi nella seconda metà del secolo gli scienziati-letterati di una nuova generazione che si raccolsero inizialmente in quella Accademia del Cimento che il principe Leopoldo, fratello del granduca Ferdinando de’ Medici, fondò a Firenze nel 1657 e che durò fino al 1667, e che, con un interessantissimo programma di lavoro in comune, portò ancora piú avanti l’istanza dell’esattezza delle esperienze, il bisogno di rispondere alle resistenze tenaci della vecchia cultura metafisica e aristotelica piú con la precisione inconfutabile di dati oggettivi, controllati pazientemente attraverso ricerche di laboratorio e di microscopio, che non con teorie e ragionamenti filosofici generali.

A questa nuova generazione, che – come vedremo poi nel primo capitolo del Settecento – portò grossi contributi alla formazione stessa di un nuovo gusto letterario antibarocco e prearcadico, appartengono (oltre al bolognese Marcello Malpighi, 1628-1694, grande medico e trattatista di problemi medici) i due maggiori scienziati-scrittori del secondo Seicento: il Redi e il Magalotti.

Francesco Redi, nato ad Arezzo nel 1626 e morto nel 1698 a Firenze, visse in questa città, medico della corte medicea e ricercatore di biologia, anatomia, e insieme attivo socio dell’Accademia della Crusca (che manteneva il culto della lingua fiorentina e l’amore, di origine rinascimentale, dei classici e dei buoni scrittori italiani) e scrittore di poesie in cui la ricerca di uno stile elegante e terso si associa ad elementi di divertimento, di bizzarria, di immagine piú brillante e festosa, non privo di avvicinamenti alle forme piú moderate del barocco, che trovano il loro maggiore risultato, estroso e disinvolto, nel celebre Ditirambo di Bacco e Arianna, esaltazione dei piú energici vini italiani realizzata in un ritmo inesauribile di trovate comiche, di macchiette ridicole, di linguaggio, metri, rime, ora grottescamente claudicanti e dissonanti, ora velocissimi e incalzanti, ora freneticamente turbinosi.

Ma se l’attività poetica è prova della vivacità del gusto rediano e della sua maggiore inclinazione a forme spiritose e comiche, la piú consistente base della sua fama e della sua importanza storico-letteraria è pur sempre costituita dalla sua attività di prosatore, di scienziato-scrittore che traduce nella sua prosa precisa, chiara, asciutta e duttile, nelle forme minute del suo stile – ormai assai lontano dalla grandiosa forza della prosa di Galileo – un piú sottile gusto della realtà sperimentata e analizzata, un senso alacre, vivacissimo, familiare, della vita umana e naturale colta con lo spirito acuto e sorridente dell’osservatore che da una parte combatte antiche e favolose credenze (come quella secondo cui il camaleonte si sarebbe nutrito d’aria, mentre il Redi dimostra con l’esperienza anatomica come il suo ventricolo sia pieno di animaletti da lui divorati) e d’altra parte si immerge, con personale piacere, fra interesse e curiosità, nella descrizione delle proprie esperienze nel loro procedere, nel loro rivelare continuamente la vera realtà delle cose sottoposte alla verifica piú attenta, nel loro ribadire la verità fondamentale dell’ordine e dell’organicità della natura.

Procedimento che si ritrova sia nell’opuscolo Esperienze intorno alla generazione degli insetti (che distruggeva la dottrina della generazione spontanea e inaugurava gli studi sul parassitismo), sia nelle Osservazioni intorno alle vipere e nella Lettera sopra alcune opposizioni fatte alle osservazioni intorno alle vipere, sia nelle Esperienze intorno a diverse cose naturali e particolarmente a quelle che si son portate dall’India, sia nelle Osservazioni intorno agli animali viventi che si trovano negli animali viventi, sia in quei Consulti medici che piú direttamente traducono i risultati della sua professione di medico in consigli sanitari di singolare acutezza ed esperta saggezza (curare le malattie nel modo piú semplice e piú secondando che forzando le risorse dell’organismo e della natura) e la sua mentalità arguta, bonaria, amabile e non perciò mediocre e semplicemente scettica.

Piú complessa, piú letterariamente squisita e culturalmente irrequieta, e sollecitata da vaste esperienze europee, appare la figura di Lorenzo Magalotti (nato a Firenze nel 1637 e morto nel 1712), la cui stessa vita è assai diversa da quella tanto piú stabile e tranquilla del Redi. Dopo essere stato segretario dell’Accademia del Cimento, il Magalotti infatti viaggiò e soggiornò a lungo prima da solo, poi come accompagnatore del principe ereditario Cosimo e come suo ambasciatore speciale, quando quegli divenne granduca, in Austria, Germania, Spagna, Portogallo, Francia, Inghilterra, Olanda, Svezia, Danimarca, compiendo cosí una vastissima esperienza di paesi, di culture diverse, i cui risultati venne poi elaborando in personali ripensamenti, quando nel ’78 la sua carriera diplomatica fu troncata ed egli si ritirò nella sua villa di Lonchio per essere poi nominato nell’89 consigliere di Stato a Firenze, dove – dopo una improvvisa decisione di farsi frate della Congregazione di San Filippo Neri a Roma, revocata, con pari precipitazione, poche settimane dopo – passò gli ultimi anni della sua vita tutti dedicati al lavoro letterario e alla corrispondenza epistolare con molti rappresentanti della nuova cultura europea. Da tale vasta esperienza culturale e da un singolare incontro fra il piú preciso interesse scientifico e una irrequietezza di spirito, fra lucidità razionale e sensibilità “morbida” (con improvvisi movimenti mistici e piú consistenti tendenze edonistiche ed epicuree), nacquero le opere piú importanti del Magalotti: non tanto le numerose rime (che si inquadrano in un passaggio fra forme di barocco-moderato ed esigenze prearcadiche), quanto ancora una volta le opere in prosa: in una prosa divenuta sempre piú sensibile e raffinata, conversevole ed elegantissima, capricciosa e pur animata da un ideale civile di cultura in progresso, affiatato con le esperienze essenziali della società francese e inglese e dei loro circoli scientifici e letterari piú avanzati.

A queste opere (soprattutto le Lettere scientifiche ed erudite, le Lettere sopra le terre odorose d’Europa e d’America dette volgarmente buccheri, le Relazioni varie) manca l’organicità degli scrittori-scienziati della scuola galileiana, ma in cambio di questa esse si raccomandano per la loro incessante ricchezza di osservazioni acute, di curiosità piú sottili, a cui corrisponde una fantasia piú mossa e un linguaggio screziato e abilissimo nel rendere con la parola le sensazioni piú delicate e fuggevoli. Non per caso l’opera piú significativa del Magalotti è appunto quella ricordata sui “buccheri” o “terre odorose”, in cui il soggetto trattato offre infinite possibilità ad una scrittura cosí sensibile e compiaciuta dei propri effetti di descrizione di odori, profumi, di sensazioni a mezzo fra sensualità e spiritualità, quasi in uno scavo della realtà sensoriale e della stessa sensibilità umana quale non era stato esercitato nelle prospettive piú chiaramente scientifiche e razionali degli altri scrittori scienziati. E tuttavia per dare un significato piú importante a questa direzione di indagine e di arte, e ai suoi aspetti di conversazione e di piacevole divulgazione filosofico-scientifica, sarebbe bisognato un piú deciso intervento delle nuove filosofie sensistiche e illuministiche che avranno vita solo con lo sviluppo pieno del Settecento.